Urfaust – “Untergang” (2023)

Artist: Urfaust
Title: Untergang
Label: Ván Records
Year: 2023
Genre: Avantgarde Black/Doom Metal
Country: Paesi Bassi

Tracklist:
1. “Untergang”
2. “Höllenkosmos”
3. “Leere”
4. “Reliquienstaub”
5. “Vernichtung”
6. “Atomtod”
7. “Abgrund”

Il diavolo sorride beffardo lontano da ogni sguardo indiscreto, il volto chinato in quella sagoma reclina che ancora una volta nasconde fino all’estremo le sue reali intenzioni: l’anima è condannata all’ultimo viaggio. Quello a cui altri e nuovi viaggi non faranno alcun seguito. Quello da cui non ci sarà possibilità di ritorno al punto di partenza né a quello che lo precede. Ma vi è in fondo mai stata? Vi è stato mai un solo momento in cui fosse realmente fattibile invertire una rotta presa con così assoluta coscienza? Una coscienza beninteso solo in parte annebbiata, si abbia cura di notarlo – e una coscienza nondimeno resta in quella liminale trasmigrazione che si svela tra l’iniziale intossicazione, che il discernimento annebbia, e la cognizione conseguente laddove viene scelto di non arrestare l’esplorazione. Il fascino dello spirito è del resto proprio quello di essere duplice, il suo linguaggio assolutamente fraintendibile. Le sue lusinghe, il suo potere seduttivo, una forza realmente diabolica in essenza che porta a chiedersi se non sia, sul fondo in cui si raggruma come immagine divinatoria ogni sedimento di coscienza critica di passato e futuro, d’altra parte l’attenzione al così ambivalente spirito una curiosa distrazione dalla vita stessa – una corruzione in termini dell’essere qui ed ora; piuttosto che non il più stereotipato credo filosofico contrario, ovvero che i piaceri della vita e della carne siano, con ogni probabilità se non de facto, il grande, arcano nemico dello spirito aulicamente definito e della sua coltivazione verso le sfere più alte dell’esistenza.

Il logo della band

Intrapreso al favore di quel feedback che, ombra nell’etere, si accende quale una miccia e scintilla nell’amplificatore è l’inebriante passaggio a sud del Paradiso, condotto da un vascello di fumo e cenere giunto al suo definitivo salpare verso l’assoluto capolinea: le frontiere dell’essere al rovescio, dell’esistenza sprecata – o veramente coltivata? Non è chiaro infatti se in “Untergang” gli Urfaust vogliano rispondere ad una simile domanda, intelligenti e acuti pensatori che hanno con ogni probabilità sempre finto di non esserlo; ma emerge evidente, anche al solo ascolto senza particolare voler d’analisi, come l’ufficialmente settimo full-length del duo che fu di Asten sia a tutti gli effetti una conclusione che non vuole scoprire più nuovi porti a cui attraccare. Forse piuttosto ergersi a fine-vita: all’apoteosi al contrario di un percorso un po’ edonistico, molto maledetto e sbagliato, verso un sicuro pentimento che sa in verità di assoluta rivincita. Un rammarico, un’ammenda senza rimorso, ma in ogni caso una espiazione fatta e finita in quei rantoli, in quelle grida di dolore che sembrano qui ossimoricamente confermare ogni scelta presa nel ribaltarne il suo iniziale punto di vista. Se il clochard non fosse dunque lo sfortunato mortificatore dello spirito ma il suo amico, in senso lato come semantico; che il senzatetto assurto a mascotte poetica e trobadorica non sia forse quell’errato esempio di perdizione in vita ma colui che ha ottenuto la chiave per l’esistenza dentro all’esistenza – e per di più mentre tutti lo guardavano di sottecchi reputandolo semplicemente un allucinato pazzo senza meta?

La band

Per quanto ogni elemento stilistico appartenga infatti già, più o meno vistosamente, al dizionario cognitivo degli Urfaust, non da ultimo atmosfericamente e nei precisi termini dell’aere che si va a respirare in “Untergang”, l’approccio è coerentemente quello di tutti i precedenti dischi e di nessuno. Se difatti la title-track accoglie tra i suoi riff sfrondati e quasi reminiscenti di Electric Wizard e Sleep quanto dei salterelli tra quelli più cadenzati e psicotropamente esaltati del nero baccanale “Der Freiwillige Bettler” (che ci regalerà, con afflato meno spettrale ed ancor più da maledetta ballata popolare, anche e soprattutto la speciale conclusione “Abgrund”), l’evoluzione tutta figlia delle manipolazioni elettroacustiche delle “Meditatum” anno 2016 la innalza nella seconda metà su di un carro d’inedita ascendenza fatto di lento doppio pedale che si manifesta psichedelica, lunatica, tremendamente trascendentale nella sua al solito semplice realizzazione ma finissima intuizione.
Non procedono, dunque, gli Urfaust nella coltivazione se vogliamo fino ad ora lineare della mefistofelica apparizione sensoriale che ha reso il poker di lavori in un qualche modo maggiori tra “Apparitions” e “Teufelsgeist” una cavalcata tanto interessante e fatta di una sempre maggiore astrazione dalle caratteristiche più Black Metal (anche in mera ingegneria del suono, qui per molti versi recuperata dati i diversi fini) in favore del fosco amalgama di macabra spiritualità e sensitiva ispirazione a canale tra mondi; bensì i due prendono tutto questo e lo ripresentano per quello che pare essere un ultimo giro di giostra composto da visioni di vuoto, un abisso sgombrato di diavoli in attesa dell’ultima, incantatrice goccia aurale spremuta. Un enigmatico cosmo infernale dantiano che passa dalla risucchiante, stordente e grandemente rumoristica “Höllenkosmos” (nomen omen) all’ascesa della emozionante “Leere” (pezzo da novanta con quei suoi scheletrici riff sfrangiati, sgranati e austeri, malinconici come raramente espresso dai motivi trance-inducing degli ultimi Urfaust – si guardi più alla compilazione dell’iconico “Ritual Music For The True Clochard”, in questo senso), la quale àltera con i suoi al contempo soffusi ma preponderanti cori il valore cerimoniale, sacro della meditazione che si fa focale mentre la musica-tempio si erge quale primo ed ultimo canale con cui corrodere il cuore e ogni bordo, ogni confine interno tra le componenti strumentali facentisi più che mai coese ed inscindibili: un corpo indistintamente unico dove il librarsi su ali Doom e di effettistica à la “The Constellatory Practice” si emulsionano ad ogni possibilità finora esplorata al fine di mescidare musica per gli avvezzi familiare eppure profondamente inclassificabile in toto; un’esperienza che sembra suonare come vuoto pneumatico in cui si alzano e restano immobili al passaggio la polvere di reliquie e i ricordi di rovine, affliggente eppure liberatoria in quel suo creare dalla cedevolezza del nulla la consistenza del tutto mediante il solito e nondimeno eccentrico ipnotismo (si elogino come conviene le perversioni di basso e sintetizzazione che si fanno una cosa sola nello snervante incedere tra “Reliquienstaub” ed il decollo “Atomtod” – di nuovo, punti di transizione e di passaggio verso un’alterità alchemica).
Ma è nella vera maestosità lo-fi che permea splendidi episodi come i giri Post-Punk da corvina balera di “Vernichtung” e quel già citato sapore di favola, seppur distorta e pennata dalle lugubri proiezioni delle fiabe mitteleuropee in “Abgrund”, che si spiega il potere singolare e caratteristico di “Untergang” nella produzione della band dai Paesi Bassi: nella voce totalmente trasfigurata di IX e nella mendace semplicità del percussionismo ipnogeno di VRDRBR che coccola l’ascoltatore tenendolo sempre sull’attenti nel medium dei suoi accenti di spiccato gusto nonché di marcata comunione con quelle chitarre dal sapore fetido e popolare, danzante ed emaciato nel loro continuo sgretolarsi di alte frequenze contro il muro di basse, schiaccianti ad aspirare invece come un gorgo di suoni la totalità della scarna, grave composizione. In questo preciso senso, in questa paradossalmente leggera gravità che ha sempre contraddistinto la serietà unica del duo, “Untergang” è davvero l’ultima discesa senza risalita, l’obliterazione dell’ultimo biglietto: l’impossibilità di riemergere a respirare dopo aver per vent’anni inalato le mefitiche conseguenze dell’intossicazione dentro e fuori; il risultato ultimo della sperimentazione folle e davvero faustiana che ha portato i due di Asten laddove presumibilmente nessun altro avrebbe avuto mai il coraggio di addentrarsi. Tra una “Trail Of The Conscience Of The Dead” e una “Der Zauberer”, tra “Ragnarök Mystiker” e “Das Kind Mit Dem Spiegel”, partendo da “Drudenfuß” e finendo con la sepoltura tra gli astri di “Abgrund” a spasso tra le ombre meditative del sé e le luci ingannevoli dell’ego, recuperando il carattere a metà strada tra le supreme vette abissali di “Empty Space Meditation” e “Der Freiwillige Bettler”, con giusto un occhio agli avvolgimenti psichedelici di “The Constellatory Practice” e “Teufelsgeist” per coerenza evolutiva, eppure senza suonare affatto quale un mero conguaglio o un passo indietro bensì una risultante stracolma di personalità propria: una nuova firma dalla calligrafia familiare, per quaranta minuti che scorrono distillati come alcol nelle vene e catarsi nello spirito – lasciando sorridenti e storditi mentre si posa malfermi il calice buono, ma in grado di reggere tutto il peso della fine.

Così, senza indebite fanfare, senza scusarsi e ribadendo tutto il contrario di tutto, sembra terminare un panegirico della degenerazione e della resurrezione nello sporco e nell’eccesso durata due decenni di talento e meritata fortuna. Una strana, curiosa vetrata colorata le cui immagini eiettano ancora con lisergica, acida, maligna ambizione immersive scene direttamente prese e manifestantisi dall’aldilà nell’al-di-qua. Una caduta di peso che sembrava poter essere infinita, un sogno o un incubo a seconda dell’inclinazione, e che invece giunge oggi ad un punto forse irrevocabile: l’ultima diapositiva a catturare perfettamente quell’essenza greve, quel terrore introspettivo tra spiritato e spirituale che si fa operistico e messa in scena decadente, fumosa, di un cosmo che viene smembrato a brandelli e ricostruito da sé, dall’interno, grazie al magnetismo entropico tra materia che sempre si riaggrega; come un pesante, potentissimo urlo che esplode per liberarsi dalla carne una volta per tutte e che si spegne per sempre dopo aver trionfato. Nel silenzio che resta ad avvolgere tutto, un’ultima lacrima sgorga persino da quell’occhio che aveva da lontano osservato divertito l’intero viaggio. La discesa è terminata, l’ultima candela si è spenta.

Matteo “Theo” Damiani

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